Pubblicato da fidest su martedì, 16 febbraio 2010
La Giunta comunale ha approvato la delibera che rivoluziona le tipologie degli impianti pubblicitari previsti sul territorio cittadino. Saranno uniformi, in materiale ecocompatibile, color grigio fumo e avranno un disegno classico. Le strutture in vetroresina sono vietate. La riforma del settore inizierà dal I e dal XVII Municipio e le società titolari degli impianti dovranno mettersi in regola entro il 30 giugno. Per chi non osserverà le nuove norme, oltre alle multe, arriverà la revoca dell’autorizzazione. Entro la fine dell’anno sarà pronto il Piano Regolatore degli Impianti Pubblicitari. “Dopo anni e anni di mancata regolamentazione – spiega l’assessore alle Attività Produttive Davide Bordoni – l’amministrazione capitolina sta mettendo mano al delicato settore della cartellonistica pubblicitaria. Oltre a questa delibera, che uniforma la struttura degli impianti per tutelare il decoro della città, da oggi sono online sul sito del Comune, in nome della trasparenza, i dati contenuti nella Nuova Banca Dati. Nel 2007 il Comune incassava circa 9 milioni di euro dalle entrate pubblicitarie mentre oggi nelle casse del Comune arrivano oltre 20 milioni”. “In merito inoltre alle dichiarazioni strumentali e pre-elettorali dei due consiglieri dell’opposizione, apparse oggi sulle agenzie di stampa – aggiunge l’assessore Bordoni – rispondiamo con i numeri messi in campo dall’amministrazione e li invitiamo a valutare le loro dimissioni, visto che in quindici anni di Giunte Rutelli/Veltroni non sono stati in grado di raggiungere i risultati che noi abbiamo raggiunto in due anni. Invitiamo gli esponenti dell’opposizione a presentare proposte costruttive e a non lasciarsi andare a dichiarazioni demagogiche”.
martedì
Oggi è la vigilia dell’anniversario di Mani Pulite
Il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, veneranda istituzione di Milano, veniva beccato con le mani nella marmellata mentre intascava una tangente di sette milioni di lire da un imprenditore che gestiva un’impresa di pulizie. Luca Magni s’era messo d’accordo con l’allora pm Antonio Di Pietro per incastrare il politico socialista. E ci riuscì. Fu il primo arresto di quella che poi passò alla storia come Tangentopoli. Muovevo i primi passi da cronista all’Indipendente di Vittorio Feltri e diciotto anni dopo, cari lettori de Il Tempo, eccoci qua a raccontare ancora una storia che somiglia, ma non è uguale. In molti hanno fatto il paragone tra quegli anni e i fatti di questi giorni. Penso sia un parallelismo sbagliato. Provo a mettere nero su bianco il mio pensiero.
Nell’Italia nel 1992 il sistema dei partiti era logorato e in crisi ideologica. La Democrazia cristiana aveva smesso di essere la formazione di riferimento dei cattolici, sul Pci era appena crollato il muro di Berlino e i socialisti sembravano l’unica forza politica dinamica in grado di assicurare al Paese una guida forte e riformista con un leader di sicuro spessore: Bettino Craxi. La Lega era un movimento allo stato nascente, la galassia dei cespugli della Prima Repubblica era poco più di un sistema di piccoli pianeti che ruotava intorno al grande sole democristiano. Le inchieste colpirono per primi i socialisti, guardacaso il solo movimento che aveva ancora una sua «spinta propulsiva».
La decimazione di quel sistema, la fine del finanziamento dei partiti attraverso le tangenti, la rottura del connubio tra poltica e imprese, nel disegno sgangherato dell’epoca avrebbero dovuto consegnare il Paese - per un incredibile paradosso della storia - al movimento che era stato sconfitto dalla storia: il Pci allora guidato da un improbabile leader di nome Achille Occhetto. Quel disegno si scontrò però con un imprevisto: Silvio Berlusconi. Un imprenditore di successo, l’uomo che aveva fondato in Italia la televisione commerciale, decise di dare una speranza ai moderati e ai riformisti italiani - destinati certamente alla sconfitta - scendendo in campo e fondando un movimento politico di nome Forza Italia.
Il destino, che sempre si diverte a giocare a dadi con le nostre vite, decise che i comunisti dovevano comunque pagare gli errori, le omissioni, le complicità con quel grande orrore chiamato comunismo. La gioiosa macchina da guerra del Pci - che dopo il muro di Berlino cambiò ragione sociale in Pds - s’infranse su un altro muro. Quello dell’Italia moderata, quello della maggioranza silenziosa che non ci stava a farsi governare da un partito che prendeva i soldi da Mosca, dalle cooperative rosse e si presentava immacolato per riscuotere l’incasso politico di un’opera di demolizione a senso unico. Il Cavaliere, con la geniale intuizione del self made man, capì che il Paese l’avrebbe seguito, che i tempi per la sinistra italiana al potere erano ancora lontani, che il sistema dei partiti poteva anche andare a carte quarantotto, ma che il sentimento dell’elettorato era ancora solidamente ancorato alle icone di Sturzo e De Gasperi e al dinamismo moderno di un riformista come Craxi.
Berlusconi fu davvero «il nuovo», quella «rivoluzione conservatrice» di cui l’Italia aveva disperato bisogno per non cadere nel baratro. Per questo Berlusconi è stato sempre considerato un’anomalia, un presunto colpevole, un Cavaliere da disarcionare per via giudiziaria. Quello che stiamo vivendo in questi giorni non è un capitolo di Mani Pulite. Quel sistema non esiste più. È solo l’ennesimo gioco sporco per spazzare via Berlusconi. Colpire i suoi simboli - e Bertolaso lo è - per far cadere nella polvere l’unico leader capace di tenere insieme il centrodestra italiano. La fine di Berlusconi coinciderebbe con la rovina del sistema dei partiti che conosciamo oggi, con l’apertura di un periodo di disordine e di confusione.
Il caos che serve ai poteri opachi, irresponsabili, lontani dall’urna e dalla sanzione popolare, per riprendere in mano l’Italia e plasmarla a loro piacimento. Ha ragione Gianfranco Fini: «Chi ruba non lo fa per il partito, ma perché è un ladro». E allora che si faccia piazza pulita dei disonesti, ma non dei servitori dello Stato e della politica.
di Mario Sechi
Nell’Italia nel 1992 il sistema dei partiti era logorato e in crisi ideologica. La Democrazia cristiana aveva smesso di essere la formazione di riferimento dei cattolici, sul Pci era appena crollato il muro di Berlino e i socialisti sembravano l’unica forza politica dinamica in grado di assicurare al Paese una guida forte e riformista con un leader di sicuro spessore: Bettino Craxi. La Lega era un movimento allo stato nascente, la galassia dei cespugli della Prima Repubblica era poco più di un sistema di piccoli pianeti che ruotava intorno al grande sole democristiano. Le inchieste colpirono per primi i socialisti, guardacaso il solo movimento che aveva ancora una sua «spinta propulsiva».
La decimazione di quel sistema, la fine del finanziamento dei partiti attraverso le tangenti, la rottura del connubio tra poltica e imprese, nel disegno sgangherato dell’epoca avrebbero dovuto consegnare il Paese - per un incredibile paradosso della storia - al movimento che era stato sconfitto dalla storia: il Pci allora guidato da un improbabile leader di nome Achille Occhetto. Quel disegno si scontrò però con un imprevisto: Silvio Berlusconi. Un imprenditore di successo, l’uomo che aveva fondato in Italia la televisione commerciale, decise di dare una speranza ai moderati e ai riformisti italiani - destinati certamente alla sconfitta - scendendo in campo e fondando un movimento politico di nome Forza Italia.
Il destino, che sempre si diverte a giocare a dadi con le nostre vite, decise che i comunisti dovevano comunque pagare gli errori, le omissioni, le complicità con quel grande orrore chiamato comunismo. La gioiosa macchina da guerra del Pci - che dopo il muro di Berlino cambiò ragione sociale in Pds - s’infranse su un altro muro. Quello dell’Italia moderata, quello della maggioranza silenziosa che non ci stava a farsi governare da un partito che prendeva i soldi da Mosca, dalle cooperative rosse e si presentava immacolato per riscuotere l’incasso politico di un’opera di demolizione a senso unico. Il Cavaliere, con la geniale intuizione del self made man, capì che il Paese l’avrebbe seguito, che i tempi per la sinistra italiana al potere erano ancora lontani, che il sistema dei partiti poteva anche andare a carte quarantotto, ma che il sentimento dell’elettorato era ancora solidamente ancorato alle icone di Sturzo e De Gasperi e al dinamismo moderno di un riformista come Craxi.
Berlusconi fu davvero «il nuovo», quella «rivoluzione conservatrice» di cui l’Italia aveva disperato bisogno per non cadere nel baratro. Per questo Berlusconi è stato sempre considerato un’anomalia, un presunto colpevole, un Cavaliere da disarcionare per via giudiziaria. Quello che stiamo vivendo in questi giorni non è un capitolo di Mani Pulite. Quel sistema non esiste più. È solo l’ennesimo gioco sporco per spazzare via Berlusconi. Colpire i suoi simboli - e Bertolaso lo è - per far cadere nella polvere l’unico leader capace di tenere insieme il centrodestra italiano. La fine di Berlusconi coinciderebbe con la rovina del sistema dei partiti che conosciamo oggi, con l’apertura di un periodo di disordine e di confusione.
Il caos che serve ai poteri opachi, irresponsabili, lontani dall’urna e dalla sanzione popolare, per riprendere in mano l’Italia e plasmarla a loro piacimento. Ha ragione Gianfranco Fini: «Chi ruba non lo fa per il partito, ma perché è un ladro». E allora che si faccia piazza pulita dei disonesti, ma non dei servitori dello Stato e della politica.
di Mario Sechi
lunedì
POL - Bertolaso, Italia punitrice di se stessa
Roma, 15 feb (Velino) - Da Menandro a Terenzio, dalla commedia greca a quella latina, e perfino - in contesti completamente diversi - da Baudelaire a Guido Gozzano, nella letteratura di tutti i tempi ritorna l’evocazione o il “topos” dell’”eautontimorumenos”, cioè del “punitore di se stesso”. Ma, lasciando da parte il grande teatro e la grande poesia, e scendendo alla piccola cronaca italiana di questi anni, l’impressione è che il nostro Paese, sotto la “guida” dei suoi cosiddetti “intellettuali” di riferimento, e con la grancassa dei media mainstream, abbia un talento speciale nell’autoinfliggersi umiliazioni e castighi ai limiti del masochismo collettivo. La cosa peggiore che, negli Stati Uniti, possa capitare a qualcuno, e in particolare a chi sta all’opposizione, è di essere definiti “unamerican”, di essere percepiti come contrari o estranei all’interesse nazionale e alla cultura del Paese. Qui da noi, pare invece sempre molto eccitante ritagliarsi la parte di chi demolisce le cose che funzionano, o di chi trascura sistematicamente di considerare la parte positiva, illuminata, creativa della nostra società. Il “Taccuino” del Velino, come sapete, ha una fissazione per tutto questo. E davvero, è inspiegabile la disattenzione della cultura e del giornalismo “ufficiali” per le cose che, nel nostro Paese, vanno nella direzione giusta: le famiglie buone amministratrici di se stesse, gli italiani proprietari di case all’85 per cento, il più basso livello di indebitamento privato dell’Occidente avanzato, i 5 milioni e mezzo di piccole e piccolissime imprese (su cui solo negli ultimissimi anni i grandi giornali hanno acceso qualche riflettore, ma con l’ipocrisia di chi - per evidenti ragioni di assetti proprietari - appartiene a tutt’altra area sociale ed economica). In questo quadro, a ben vedere, si colloca il tentativo di linciaggio in corso contro Guido Bertolaso. Non c’è solo la solita ventata giustizialista, con in più il gusto di colpire il governo Berlusconi là dove è stato più apprezzato dall’opinione pubblica, ma c’è qualcosa di più: c’è la voglia, neppure troppo sottotraccia, di demolire quel modello di Protezione civile che, dai casi Campania e Abruzzo, è oggi oggetto di ammirazione, invidia e soprattutto studio, in tutto il mondo. Il resto è una somma di dettagli, o comunque di tecnicalità meno rilevanti: un decreto si può correggere o no, così come è certamente possibile che, nel mare di interventi realizzati in tempi serrati e in totale emergenza, qualcosa possa non essere andato per il verso giusto, in termini di procedure. Ma si tratta di dettagli, appunto: travolti da una furia distruttrice e autodistruttrice dalla quale - per definizione - non può venire nulla di buono.
venerdì
Ultimo Rapporto Audiweb
Due dati, ugualmente degni di nota, emergono dall'ultimo rapporto Audiweb sul rapporto fra italiani e internet. Due aspetti diversi, opposti nei commenti che fanno scaturire, ma entrambi importanti per comprendere la situazione del web nel Paese. Il primo dato riguarda l'aumento dei collegamenti a internet: per l'esattezza, nel 2009 il 64,6% della popolazione fra gli 11 e i 74 anni ha dichiarato di usufruire di un accesso alla rete, pari ad un incremento del 10,4% rispetto al 2008. Per quanto riguarda le famiglie, il 51,9% delle famiglie dispone di un accesso al web, con un aumento del 13,6% rispetto all'anno precedente. Il report Aw Trends, realizzato da Audiweb in collaborazione con Doxa, mostra quindi un avvicinamento del contesto italiano alla situazione degli altri Paesi europei. Parallelamente, le connessioni mobile iniziano a diventare una realtà concreta in Italia, rappresentando il il 9% della popolazione italiana della fascia d'età compresa fra gli 11 e i 74 anni.
Il secondo dato interessa la diffusione della banda larga e soppianta le ipotesi di miglioramento del panorama italiano, scaturite dall'analisi del primo dato. Il tasso di penetrazione delle connessioni broadband, ossia maggiore di 144 Kbps, è pari al 19,8%, a fronte delle più alte percentuali degli altri stati: 37,9% dell'Olanda, 29,4% della Germania e 29,2% della Francia. In definitiva, solo il 30% della popolazione usufruisce della connessione veloce, mentre la restante parte di internauti italiani devono accontentarsi di connessioni analogiche o Adsl con una velocità di 100 Kbps: troppo poco rispetto agli standard internazionali.
L'utilizzo del web ha tutte le carte in regola per affermarsi in Italia, ma le connessioni degli italiani hanno bisogno di premere sull'acceleratore.
mercoledì
Google lancia la nuova sfida ai social network su Gmail
Nel servizio di posta sarebbero pronte funzioni tipiche di Twitter o di Facebook
NEW YORK (9 febbraio 2010) - Google sul web intraprende la strada di una nuova strategia. Il motore di ricerca più cliccato al mondo non lascia nulla al caso, e oggi il colosso della rete ha deciso di lanciare la sua sfida ai social network. Nel servizio di posta di Gmail compariranno funzioni che sono tipiche delle elaborazioni di Twitter o di Facebook, cioè i clienti potranno aggiornare il loro status e condividere tra loro delle informazioni. La stampa specializzata riporta che le novità saranno disponibili nei prossimi giorni, tuttavia Google non ha ancora confermato le indiscrezioni. Il motore di ricerca si starebbe dunque muovendo nella stessa direzione intrapresa da Yahoo che tempo fa che aveva già offerto agli utenti servizi simili a quelli dei social network, come quello di potere scambiare foto con i propri contatti di posta.
NEW YORK (9 febbraio 2010) - Google sul web intraprende la strada di una nuova strategia. Il motore di ricerca più cliccato al mondo non lascia nulla al caso, e oggi il colosso della rete ha deciso di lanciare la sua sfida ai social network. Nel servizio di posta di Gmail compariranno funzioni che sono tipiche delle elaborazioni di Twitter o di Facebook, cioè i clienti potranno aggiornare il loro status e condividere tra loro delle informazioni. La stampa specializzata riporta che le novità saranno disponibili nei prossimi giorni, tuttavia Google non ha ancora confermato le indiscrezioni. Il motore di ricerca si starebbe dunque muovendo nella stessa direzione intrapresa da Yahoo che tempo fa che aveva già offerto agli utenti servizi simili a quelli dei social network, come quello di potere scambiare foto con i propri contatti di posta.
sabato
ECO - Nucleare, Veronesi: Non danneggia la salute ed è sostenibile.
Roma, 5 feb (Velino) - Il nucleare “non danneggia la salute” e anzi è l’opzione più “concreta da considerare”, anche sotto il profilo ambientale, della sicurezza e della “stabilità politica”. Parola di Umberto Veronesi, direttore scientifico dell’Istituto europeo di Oncologia. L’analisi del professore, in un articolo pubblicato nell’ultimo numero di Formiche, parte da una serie di dati scientifici. Innanzitutto il discorso salute: “È percezione diffusa che la scelta nucleare costituisca un pericolo anche per i suoi potenziali effetti cancerogeni”. In realtà, osserva Veronesi, “se guardiamo alle cause che provocano tumori osserviamo che i fattori genetici sono responsabili solo del 3 per cento dei tumori, i fattori riproduttivi ed endocrini lo sono per il 12 per cento mentre i fattori ambientali sono la causa dell’85 per cento di tutti i tumori”. Di questi, tuttavia, spiega il luminare, al primo posto per cause c’è l’alimentazione (30-35 per cento), seguita dal fumo (30 per cento), da virus (10 per cento) e per il restante 4 per cento dall’esposizione da sostanze cancerogene sui luoghi di lavoro. “Esiste dunque una minima parte di tumori dovuti all’inquinamento atmosferico, i cui principali responsabili sono i combustibili fossili”. E “in questo panorama – osserva l’oncologo – il rischio cancerogeno dell’energia nucleare con i moderni reattori è di fatto vicino allo zero”. Altro timore diffuso è quello del rischio incidenti. La mente torna a Chernobyl che però, spiega Veronesi, “era un impianto obsoleto e carente di sistemi di sicurezza”. Oggi, osserva, i “rischi dell’industria nucleare moderna sono molto inferiori a quelli di altre attività industriali, in particolare quella dei trasporti”, grazie alla ricerca e ai nuovi sistemi di sicurezza. Non è tutto. L’attenzione, secondo Veronesi, va spostata anche sulla duplice necessità di produrre energia, essenziale per lo sviluppo, (le stime parlano di un fabbisogno mondiale in aumento di oltre il 50 per cento entro il 2030), “e farlo proteggendo l’uomo e l’ambiente”. Le tre opzioni attualmente disponibili sono quelle dei combustibili fossili, che pur avendo un’alta produzione sono però “inquinanti” e “dannosi per la salute” e presentano “pericoli dal punto di vista geopolitico”. Poi c’è la tecnologia fotovoltaica, sulla quale bisogna fare ancora ricerca per rendere “accessibili i costi di trasformazione”. La terza opzione è quella di altre fonti non inquinanti, come eolico, geotermia, biomasse e idroelettrico, che tuttavia “hanno altre criticità”. Rimane il nucleare, che, sottolinea Veronesi, è “una fonte di energia pulita: non produce l’anidride solforosa, né gli altri gas serra” e “non disperde nell’ambiente le famigerate polveri sottili”, citando l’esempio della Francia come il Paese europeo più “virtuoso” dal punto di vista delle emissioni, grazie alle sue 58 centrali nucleari. Per quanto riguarda lo smaltimento delle scorie radioattive e lo smantellamento delle centrali, invece, “la ricerca scientifica può essere di grande aiuto”, spiega l’oncologo. Per le scorie, ad esempio, sono state messe a punto “tecniche di stoccaggio ad altissima sicurezza” come i depositi geologici di profondità. Lo sguardo è rivolto ancora alla Francia, “che ogni anno produce 1500 metri cubi di scorie rispetto alle sostanze chimiche tossiche, la cui produzione è pari a un milione di metri cubi”. Mentre dal punto di vista dei costi, Veronesi ricorda uno studio patrocinato dalla Commissione europea e dal Dipartimento per l’energia Usa dal quale è emerso che “l’energia nucleare è economicamente competitiva” anche considerando i cosiddetti costi ‘esterni’, vale a dire il costo della gestione delle scorie, dello smantellamento degli impianti e degli eventuali incidenti. “È vero che per costruire un reattore nucleare occorre un notevole investimento, tuttavia, una volta ultimato, può funzionare per 40 anni e più a un costo di esercizio minimo. Il prezzo del combustibile nucleare infatti è molto inferiore al prezzo per chilowattora di energia elettrica” e si tratta “di un prezzo stabile e non manipolato per scopi politici”, conclude Veronesi.
(red/asp) 5 feb 2010 18:48
(red/asp) 5 feb 2010 18:48
martedì
ePrivacy, Commissione Ue contro l’Italia
La Commissione ha avviato un procedimento nei confronti dell’Italia per mancata osservanza delle norme europee in materia di vita privata e comunicazioni elettroniche (ePrivacy). In base alla normativa comunitaria, infatti, gli Stati dell’Unione devono garantire che gli abbonati i cui nominativi figurano in un elenco pubblico siano informati sugli scopi dell’elenco e che l’uso a fini commerciali dei dati personali ivi contenuti sia subordinato al loro consenso. In Italia, però, queste norme non sono state osservate. Si sono infatti costituite delle banche dati per le televendite ricavate da pubblici elenchi di abbonati e agli interessati non è stato chiesto il consenso per l’uso di queste informazioni. L’uso di queste banche dati era autorizzato dalla legge italiana n.14 del 27 febbraio 2009 fino al 31 dicembre scorso ed è stato prorogato di ulteriori sei mesi. “È preoccupante constatare - sostiene Viviane Reding, commissaria europea alle telecomunicazioni - che non solo l’Italia non ha recepito nel proprio ordinamento interno le disposizioni previste dalla direttiva sulla ePrivacy, ma anche che le autorità italiane hanno prorogato la possibilità di usare banche dati contenenti dati personali di cui non è stato consentito l'utilizzo. È nostro compito garantire che tutti gli stati dell’Unione rispettino le norme comunitarie, in modo che i cittadini si sentano sicuri nel mercato unico delle telecomunicazioni e siano informati dell’uso che viene fatto dei loro dati personali”.
La Commissione ha quindi inviato al Bel Paese una lettera di costituzione in mora, prima fase di un procedimento di infrazione. Ora l’Italia ha due mesi per rispondere. In assenza di risposta, o se le osservazioni presentate non saranno soddisfacenti, la Commissione potrà decidere di formulare un parere motivato. Se nemmeno in questo caso l’Italia dovesse ottemperare agli obblighi che le incombono in virtù del diritto dell’Unione europea, la Commissione potrà adire la Corte di giustizia
La Commissione ha quindi inviato al Bel Paese una lettera di costituzione in mora, prima fase di un procedimento di infrazione. Ora l’Italia ha due mesi per rispondere. In assenza di risposta, o se le osservazioni presentate non saranno soddisfacenti, la Commissione potrà decidere di formulare un parere motivato. Se nemmeno in questo caso l’Italia dovesse ottemperare agli obblighi che le incombono in virtù del diritto dell’Unione europea, la Commissione potrà adire la Corte di giustizia
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