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giovedì 2 luglio 2020

VINO - ESSENZA E DISTILLATO NEI RITI - NEI SIMBOLI

            L’usanza consueta, in alcune culture, (Dionisio-Bacco) di un eccessivo consumo di vino, aveva la sua spiegazione nel culto, in quanto provocava l’unione con la divinità dell’ebbrezza. Il vino doveva spezzare ogni incantesimo, smascherare le bugie o menzogne (in vino veritas) che non debbono albergare nel cuore del saggio (i Massoni lavorano a questo fine). Anche i defunti potevano gustarlo, se lo si versava a terra disperdendolo (libagione).
         Come “sangue dell’uva” il vino fu spesso visto in un rapporto simbolico con il sangue e non soltanto nel Cristianesimo. Esso, infatti, poteva anche sostituire il sacrificio cruento nel culto dei morti.
         Nella simbologia cristiana, il sangue di Cristo, occupa una posizione centrale (Carne e Sangue corrispondono a Pane e Vino). Nelle raffigurazioni della crocifissione si possono vedere Angeli che raccolgono il sangue dentro i calici, ricollegati simbolicamente al leggendario GRAAL (come certamente sapete, è indicato quale recipiente che Cristo adoperò in occasione della cena eucaristica ed in cui, poco dopo, venne raccolto il suo sangue). Il GRAAL così caro ai cavalieri prescelti da Re Artù per formare la Tavola Rotonda ed all'ordine cavalleresco dei Templari, al quale siamo storicamente legati.
Durante le NOZZE DI CANA, il rilievo non è dato al festeggiato ma a Gesù che, alla fine, attraverso l’allusiva dichiarazione del maestro di tavola, viene ringraziato per aver provveduto al vino buono fino alla fine del  banchetto.
         Molte sono le teorie sulla storia e l’espansione della vite (come simbologia, da molti popoli considerata l’albero della vita) e della vitivinicoltura; le più accreditate ne individuano l’origine organizzata nell'Asia minore, anche se reperti archeologici, rinvenuti in molti insediamenti preistorici, confermano che le GENTI ITALICHE facevano uso sia di uva che di vino, ben prima che la Bibbia fosse scritta.
Dove è doveroso segnalare la citazione nel canto XXX dell’ECCLESIASTICO:
“Date il vino a quelli che sono con l’animo amaro, acciocché bevano e dimentichino la loro miseria e non abbiano più memoria del loro dolore”.
         I reperti archeologici evidenziano una forte influenza degli Etruschi a partire dall’ VIII secolo a.C.
Le colonizzazioni Etrusca e Greca portarono nuove tecniche e nuovi vitigni, lo fecero con numerose varietà, scelte in funzione di ubicazione e clima, così che Plinio il Vecchio, arriverà a catalogarne svariate decine, da tavola e da vino.
Da tanta ricchezza di vitigni e di esposizioni è facile arguire che i fini intenditori potevano contare su una ricca scelta. Dalla lettura di Plinio il vecchio, senza la cui enciclopedia (arrivata integra fino a noi) vivremmo in grave avarizia di informazioni, il mercato offriva pressappoco duecento vini di grande qualità. Circa quanto le nostre attuali migliori D.O.C.
         Riguardo alla simbologia e all’albero della Vita, in estrema sintesi, “un simbolo nasce là dove ad un dato reale, un numero, una parola, un segno, una pianta, un’immagine, un edificio, in breve, ad una cosa, si conferisce un senso più profondo di quanto non possieda nella sua mera sussistenza reale, quando a queste cose ed alle loro forme si attribuisce una maggiore dignità ed un più alto valore di quanto ad esse non spetti propriamente, quando alla cosa esteriore si dà un più profondo valore morale o spirituale, rendendola così immagine di processi spirituali non altrimenti rappresentabili. 
Giotto (c. 1303-1305) Padova - Cappella degli Scrovegni 
Le «radici» dell’acquavite sono … nel cielo.
Oggi la chiamiamo grappa ma all’origine era la quinta essentia (in analogia con il quinto elemento aristotelico, componente dei corpi celesti)  e poi, compiendosi il viaggio della grappa dalle suggestioni alchemiche e metafisiche a farmaco, alimento e bene voluttuario, diventò aqua vitae, aqua ardens, anima vini, acquavite e infine grappa.
Per la precisione, oggi si distinguono:
Distillato di Vino (Brandi), Distillato di vinacce (Grappa), Distillato d’Uva (Acquavite).
La fisica aristotelica era fondata sulla teoria delle qualità, sulla mescolanza cioè dei quattro elementi fondamentali, terra, aria, acqua, fuoco, che produceva qualità opposte come, freddo/caldo, umido/secco; questi principi erano alla base della teoria e della pratica medica. E inoltre secondo la fisica e la cosmologia aristotelica l’universo era diviso in mondo sublunare (corruttibile e dove il moto era rettilineo) e mondo delle sfere celesti (incorruttibile e animato da moto circolare, in cui era presente l’etere o quinta essenza ingenerabile, incorruttibile e inalterabile).
A causa del fallimento del programma di trasmutazione dei metalli in oro, la ricerca alchemica si indirizzò, dalla fine del XIII al XIV secolo, verso la distillazione. Agli occhi degli alchimisti il distillato di vino presentava sorprendenti caratteristiche simili alla quinta essentia: era trasparente come il cielo, incorruttibile e inalterabile.
Con l’introduzione della cultura araba nel mondo latino, nel XII secolo, giunsero anche opere di molti autori del pensiero classico non ancora tradotte; fra cui testi sconosciuti di Aristotele come la Fisica, il De Generatione et Corruptione e altre).
Giunsero anche ai centri di traduzione presso le corti arabe di Spagna e Sicilia, testi alchemici, il cui ingresso contribuì alla valorizzazione del bagaglio tecnico-sperimentale e del legame tra scienza e manualità. La novitas dell’alchimia suscitò curiosità e vivo interesse tra gli studiosi, ma ben presto entrò in conflitto con il sapere scolastico.
Il programma dell’alchimia prevedeva un obiettivo elevato e ambizioso: quello di raggiungere, attraverso l’arte, la perfezione che per i metalli è l’oro, per l’uomo la longevità, poi l’immortalità, e infine la redenzione. Per una serie di motivi questo programma non fu realizzato e l’apprezzamento iniziale, nel corso dei decenni, si tramutò in discredito, derisione, persecuzione. Gli alchimisti da ministri (simili a Dio) e «gubernatores naturae, taciti et secreti, umili e pii», divennero nell'immaginario popolare, sulla spinta delle condanne di papi e inquisitori, adulteratores et latrones e ancora, sophistae et impostore, trufadores, multiplicatores, delusores, pseudophilosophi.
Il fallimento del loro programma spinse i filosofi alchimisti a rifugiarsi in orizzonti visionari utopici e profetici non estranei d’altra parte a visioni catastrofiche e apocalittiche e a sentimenti diffusi di attesa di una grande renovatio.
Agli inizi dell’alchimia latina, nel XII secolo, il problema della trasmutazione era strettamente intrecciato con alcuni aspetti della filosofia naturale e soprattutto col naturalismo aristotelico e quindi costituì un punto cruciale della ricerca e definizione di uno statuto epistemologico dell’alchimia stessa.
Questa fase che potrebbe essere definita «metallurgica» 
si estenderebbe fino al 1275 circa.
Un ruolo di conciliazione e di adattamento delle tesi alchemiche al quadro epistemologico scolastico fu svolto soprattutto da Ruggero Bacone il quale, partendo da una critica al vecchio assetto dell’enciclopedia scolastica, pone l’alchimia, come teoria della materia e della generazione, sullo stesso piano della filosofia naturale. Bacone inoltre, in conformità col suo principio secondo cui la «veritas» del sapere va accompagnata alla «utilitas», considera l’oro alchemico più pregiato di quello delle miniere e ne apprezza le qualità terapeutiche; infatti se assunto come oro potabile è un farmaco equilibratissimo atto a favorire la prolongatio vitae.
Con Bacone quindi fa ingresso nella tematica della trasmutazione quell'aspetto medico-farmacologico dell’elisir o lapis o «medicina».
Una vera e propria svolta farmacologica si ebbe in conseguenza di una lunga crisi dell’alchimia che iniziatasi alla fine del XIII secolo, fu determinata dalla disarticolazione del rapporto teoria/pratica dovuta a un’eccedenza di dati sperimentali rispetto alle teorie disponibili. Ma un altro fattore fu più determinante: alla lunga l’insuccesso nella fabbricazione dell’oro artificiale, la più grande promessa degli alchimisti, produsse delusione e diffidenza; di qui l’accusa principale rivolta all'alchimia di essere un mendacium.
L’alchimia quindi si pone alla ricerca di un nuovo statuto epistemologico in una nuova fase caratterizzata dall'introduzione di elementi soprannaturali dovuti all'intuizione e alla rivelazione. Questa tendenza, attraverso gli scritti attribuiti a Raimondo Lullo e ad Arnaldo da Villanova, si concluderà verso la metà del XIV secolo, con Giovanni da Rupescissa, un monaco francescano alverniate, col ricorso a un nuovo modello cosmologico, quello cristologico. Le trasformazioni di elementi naturali provocate dall’alchimia sono concepite in analogia con le sofferenze e la resurrezione di Cristo Dio e Uomo. E lo statuto epistemologico sarebbe così fondato sul dogma della trasfigurazione, della resurrezione, della vita eterna.
La ripresa dell’alchimia si verifica quindi in ambito medico farmacologico grazie al successo e alla diffusione delle tecniche di distillazione, soprattutto dell’alcol ottenuto dalla distillazione del vino. Per le sue proprietà, quest’acqua ardente e volatile non s’integrava nello schema dei quattro elementi; non essendo né terra, né acqua, né aria, né fuoco; gli alchimisti ricorsero al concetto aristotelico di quinta essentia, quinto elemento, materia dei corpi celesti.
Una certa indeterminatezza epistemologica rendeva non falsificabile l’idea del farmaco alchemico: se la «medicina» non funzionava e l’ammalato moriva, era sempre possibile appellarsi alla divina volontà! Era molto più difficile invece giustificare l’insuccesso nella fabbricazione dell’oro artificiale.

La concezione aristotelica dell'universo, che vede al centro i quattro cerchi sublunari corrispondenti a terra, acqua, aria, e fuoco, al di sopra dei quali ruotano le sfere planetarie di sostanza eterica.

Il Liber de consideratione quintae essentiae (1351 ca.) di Giovanni da Rupescissa, scritto durante un periodo di prigionia ad Avignone, è pervaso da una sorta di ispirazione divina.
Ma al di là delle intenzioni di Giovanni, l’acquavite era già apprezzata come alimento e bene voluttuario. La «quinta essenza» pur mantenendo il doppio significato di prodotto filosofico-spirituale e di alimento, si diffuse a livello di consumo sociale come bevanda.
E come non citare Dante ?
Nel Canto XIV dell’Inferno il Poeta fa capire che le lacrime avrebbero anche una funzione iniziatica perché con la loro evaporazione spegnerebbero le fiamme del girone permettendo il passaggio del pellegrino. In definitiva quindi il pianto del veglio (Statua del Grande Vecchio che a Creta guarda Roma) sarebbe come un'allegoria del peccato, che nasce dagli uomini e punisce gli uomini stessi attraverso i fiumi infernali. Dante ha bisogno di qualche altra spiegazione e chiede a Virgilio perché se questo fiume giunge dal mondo dei vivi lo incontrano solo ora e il poeta latino risponde che fino ad allora essi sono scesi sempre verso sinistra, ma ancora non hanno fatto un giro completo. Poi Dante chiede dove siano il Flegetonte e il Lete, non citati prima, e il maestro risponde che il bollore dell'acqua del fiume rosso avrebbe già dovuto essere di risposta alla sua domanda; mentre per quanto riguarda il Lete Dante lo vedrà sì, ma fuori dalla fossa infernale perché è il luogo dove "l'anime vanno a lavarsi / quando la colpa pentuta è rimossa" cioè in Purgatorio.
Poi Virgilio taglia corto e incita Dante ad allontanarsi dal bosco affinché lo segua sui margini, che fanno la "via", e dove il fuoco non attacca perché sopra di essi le fiamme (vapor) si spengono. 
                                           Giancarlo Bertollini

Bibliografia:
°      La BIBBIA
°      Da Ricerche sul WEB
°      TRECCANI - Enciclopedia Italiana
°      Enciclopedia dei Simboli  (Garzanti)
°      Da Lavori del Fr Giancarlo Bertollini 

www.studiostampa.com

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